La carriera di Henri Cartier-Bresson compre gran parte delle tappe importanti della fotografia del Novecento, ma la vastissima raccolta delle sue opere fatica ad essere inquadrata in un unico genere.
Esse possiedono uno stile ed una filosofia così riconoscibili e personali da resistere a qualsiasi classificazione, nonostante la collaborazione con l’agenzia Magnum, la quale fu all’origine di molte sue fotografie rappresentative.
Questa fotografia presenta una serie di elementi fondamentali caratteristici del suo stile.
Il momento è essenziale, ma altrettanto lo sono i riflessi, le incongruenze, la geometria visiva, le anomalie e la trasformazione del banale in qualcosa di speciale e imprevisto.
Le sue immagini sanno farci riflettere sulla complessità dell’atto fotografico e al tempo stesso sul messaggio.
La concezione di Bresson sul momento decisivo si basava sull’affermazione che la fotografia è in grado di riprodurre fedelmente la realtà, compiendo l’azione di immortalare un determinato momento e non un attimo qualsiasi per cogliere l’essenza della situazione.
L’attenzione per i particolari, la finezza dei toni, il punto di vista insolito sono tutti elementi che deviano la visione in termini drammatici e spesso estremi: l’oggetto del nostro sguardo è filtrato attraverso una sensibilità tale da essere colta dall’obiettivo del fotografo.
Bresson apre il mondo all’obiettivo della macchina fotografica, facendoci ricordare che le fotografie vanno sempre viste tenendo conto di un contesto umano più ampio.
L’opera di Sebastião Salgado riflette proprio questo approccio.
“Bambino che viene pesato nell’ambito del programma di aiuti alimentari, Gourma Rarhous, Mali – giugno 1985”
Nonostante il titolo fornisca una specifica collocazione geografica e cronologica, il dramma di un solo bambino viene mostrato in maniera diretta e complessa.
La risposta immediata sollecitata dall’immagine è controbilanciata dall’utilizzo di un sottile vocabolario simbolico.
Dal punto di vista tecnico Salgado è un fotografo di eccezionale bravura, come mostrano per esempio i suoi ritratti di lavoratori sudamericani, che sembrano sculture rinascimentali.
Decifrare l’immagine significa dunque misurarsi con problematiche e ambiti potenzialmente infiniti, coinvolgendo lo spettatore direttamente nel messaggio.
L’immagine fotografica conserva una profonda e per molti sensi sbalorditiva capacità di significare.
“Sigaretta n.37” di Irving Penn, scattata nel 1972, offre interessanti spunti culturali e visivi.
Richiama per esempio il quadro di Stuart Davis Lucky Strike (1921) o le problematiche affrontate da dadaisti e surrealisti.
Ci sono due sigarette l’una di fianco all’altra: una è americana (Chesterfield), l’altra europea (Camel).
A due mozziconi di sigaretta viene accordata la stessa considerazione normalmente associata agli edifici.
L’immagine, quindi, è un ottimo esempio della facoltà, propria della fotografia, di trasformare oggetti o momenti assolutamente banali in qualcosa di speciale, addirittura straordinario.
La fotografia mette in risalto anche eventi più trascurabili: può rendere importante qualsiasi cosa.
Non è solo l’unico medium accessibile a tutti, ma è anche uno strumento per dar forma alle proprie storie e attribuire loro significato.
Garry Winogrand, forse uno dei più acuti fotografi del Novecento, realizza immagini complesse e sottili e fotografa per scoprire l’aspetto delle cose nel momento in cui le aveva fotografate.
Il fotografo ha la capacità di congelare l’attimo, aprendo in esso un territorio di significati potenziali.
Le sue immagini emanano ambiguità, ironia e paradosso.
In questa fotografia una situazione normalissima si è trasformata in un’immagine decisiva nel tardo Novecento, tutti i personaggi sembrano assorbiti dall’atto di guardare: nessuno sembra fare caso alla macchina fotografica.
“Workshop giapponese” di Marc Riboud, per esempio, allude al bisogno quasi disperato di registrare la realtà, ma agisce sulla base di stereotipi.
Una foto che parla delle fotografie e della fotografia, il soggetto è irrilevante.
Ciò che conta è il bisogno di registrare visivamente ad un evento.
Riboud documenta l’atto di documentare e così facendo ci permette di osservare i rapporti espliciti tra fotografo e soggetto.
L’immagine di Susan Meiselas “Cuesta del Plomo”, per esempio è ingannevole.
I colori sfarzosi e la vegetazione lussureggiante fa pensare alle immagini stereotipate delle pubblicità turistiche.
Ma questa è una fotografia di guerra e l’occhio che pigramente esplora il paesaggio, cade nella sua trappola: la scoperta dei resti umani rende infatti palese il vero centro dell’immagine.
Il postmodernismo ha messo in discussione l’efficacia della fotografia proprio quando siamo saturi della sua presenza su giornali, riviste, volantini e pubblicità.
Essa rappresenta il perfetto medium moderno. Celebra la molteplicità, registrando il momento e rendendolo significativo e inesauribile.
Le due immagini fotografiche che inaugurarono il cammino di questo mezzo straordinario sono: “Interno di Atelier Daguerre” di Daguerre e “Vista dalla finestra a Gas” di Niépce.
La fotografia di Niépce è una presenza insensibile allo spazio e al tempo e più che un’immagine è una traccia dell’atto di vedere. Essa comunica un senso di ambiguità e persino di mistero.
La fotografia di Daguerre, invece, satura l’occhio con il suo senso della concretezza del mondo, misurando e celebrando la presenza fisica degli oggetti.
L’immagine esprime, quindi, la fiducia nella rappresentazione della sostanza: la sostanza di un mondo tridimensionale, soggetto al controllo e alla conoscenza dell’uomo.
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